Alzheimer, una lotta continua

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  In Italia un milione e mezzo di persone convivono con la demenza.

Sono passati quasi centoventi anni da quando Aloysius Alzheimer, psichiatra e neuropatologo tedesco, ha descritto compiutamente per primo un caso di demenza senile.

Da allora, eravamo nei primi anni del Novecento, si sono succeduti studi, ricerche, dibattiti, speranze e delusioni: gli sforzi, tanti, per debellare o anche solo arginare la malattia, non sono stati premiati da passi in avanti nella cura o nella prevenzione.

 Negli ultimi mesi ci sono stati nuovi annunci, pubblicazioni, risultati ritenuti incoraggianti attorno al “mistero Alzheimer”.

Vediamo come stanno le cose, cominciando dalla situazione. Solo in Italia sono quasi 1 milione e mezzo le persone che convivono con le demenze. In tutto il mondo, sono oltre 55 milioni.

L’Alzheimer è ritenuta la forma più comune di demenza senile. Consiste in uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali che implica serie difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività quotidiane.

La malattia colpisce la memoria e le funzioni cognitive e si manifesta inizialmente con lievi dimenticanze fino ad arrivare al punto in cui i soggetti colpiti non riescono più a riconoscere nemmeno i propri familiari.

In Italia sono oltre 1.480.000 le persone colpite e si stima che siano destinate a diventare 2.300.000 entro il 2050. Praticamente, ogni 3 secondi, secondo le stime dei ricercatori, qualcuno nel mondo sviluppa l’Alzheimer. 

Cosa fare per arginare la malattia? Uno dei metodi per tentare di prevenire la malattia è intercettare i casi di Alzheimer conducendo degli screening in popolazioni a rischio. Utilissime sono ritenute azioni come campagne di sensibilizzazione, corsi di formazione e il coinvolgimento di diverse figure professionali: dai medici di medicina generale, agli specialisti, ai farmacisti. 

L’impegno massimo oggi consiste nell’anticipare la malattia. E’ stato scoperto proprio in queste settimane che alcuni batteri predicono la comparsa dell’Alzheimer. Lo dimostra uno studio della Washington University School of Medicine di Saint Louis. Ci dice che l’Alzheimer può essere individuato precocemente grazie alla presenza di alcune specie batteriche.

La composizione del microbioma intestinale, infatti, può essere determinante per scoprire in anticipo i primi segni dei sintomi cognitivi connessi con la malattia.


“Non sappiamo ancora se sia l’intestino a influenzare il cervello o il cervello a influenzare l’intestino – ha commentato in una nota il coordinatore dello studio, l’esperto Gautam Dantas. In entrambi i casi, però, conoscere questo legame è prezioso.

Potrebbe essere che i cambiamenti nel microbioma intestinale siano solo uno specchio dei cambiamenti patologici nel cervello. L’altra alternativa è che il microbioma intestinale contribuisca all’Alzheimer; in tal caso la regolazione del microbioma intestinale con probiotici o trasferimenti fecali potrebbe aiutare a cambiare il decorso della malattia” ha concluso l’esperto.

Un recente studio italiano ci dice che esiste un legame diretto tra l’Alzheimer e una scarsa qualità del sonno. A dimostrarlo, e a spiegare per la prima volta nella storia il meccanismo è una ricerca del Centro di medicina del sonno dell’ ospedale Molinette, di Torino, in collaborazione con il Nico.

È noto che il riposo notturno nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer sia spesso disturbato fino ad arrivare ad una vera e propria inversione del ritmo sonno-veglia.

In realtà, recenti studi hanno osservato anche che i disturbi del sonno stessi (come deprivazione di sonno e apnee) possono influenzare negativamente il decorso della malattia. 

Nei pazienti con sonno disturbato, sia in termini di quantità che qualità, si riscontra un aumento del deposito cerebrale della proteina beta-amiloide. Quest’ultima è implicata nella genesi della malattia di Alzheimer.

Ancora, un recente studio cinese ci dice poi che c’è un legame speculare fra il rischio di sviluppare epilessia nei pazienti con predisposizione genetica all’Alzheimer e quello di sviluppare l’Alzheimer nelle persone con predisposizione genetica all’epilessia.

“I nostri risultati – spiegano gli studiosi – supportano il fatto che si dovrebbero fare maggiori sforzi per lo screening dell’epilessia nelle persone con malattia di Alzheimer, e anche per comprendere l’impatto delle convulsioni su coloro che affrontano queste due difficili patologie neurologiche”.

Da segnalare, infine, i risultati promettenti ottenuti da un farmaco che punta a ridurre il declino cognitivo di chi soffre della terribile patologia. La Food and Drug Administration (FDA), ente governativo statunitense, ha garantito a questo farmaco il via libera accelerato.

“Negli studi eseguiti – scrive la FDA – il farmaco (un anticorpo monoclonale) ha mostrato risultati promettenti per la cura del morbo, da cui sono affetti circa 6,5 milioni di americani, con un evidente rallentamento della malattia. Questa opzione terapeutica è un’importante terapia per mirare e influenzare il processo patologico alla base dell’Alzheimer, invece di trattare solo i sintomi della malattia”.