Solitudine, la grande nemica

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Nuovi studi ne ribadiscono la pericolosità per gli anziani

La solitudine ha una fedina penale lunga come quella di un pluripregiudicato sulla quale il giudice, ogni tanto, aggiunge un nuovo reato al già lunghissimo elenco. L’hanno definita maledetta, alienante, male invisibile, emergenza sociale, nemica, la lebbra del nostro secolo. E anche beata, ma questa è un’altra storia.

Per gli anziani la solitudine è una sorta di prigione a cielo aperto. Ed è causa di una lunga lista di problemi: dal disturbo del sonno al declino cognitivo, dallo sviluppo di demenza al rischio di morte precoce.

“Sappiamo – ha detto Vivek Murthy, massima autorità della sanità americana – che la solitudine è un sentimento comune a molte persone. E’ come la fame o la sete. E’ una sensazione che il corpoci invia quando qualcosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza viene a mancare. Milioni di persone lottano nell’ombra. Non è una cosa giusta. Ecco il motivo per cui ho lanciato l’allarme, per fare luce su un problema a cui troppe persone vanno incontro”.

Ora c’è un nuovo studio che riporta la solitudine sul banco degli imputati. E’ stato condotto su quali duemila persone, cognitivamente sane, di età compresa fra i 50 e 82 anni, reclutate dal Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia.

I ricercatori hanno certificato che “l’isolamento sociale ha un impatto sulla struttura e funzionalità cerebrale e favorisce una riduzione del volume della corteccia cerebrale”. Va sottolineato che l’invecchiamento porta con sé una fisiologica atrofizzazione del cervello ma la solitudine, secondo questo studio, “sembra catalizzare e accelerare in modo patologico, con caratteristiche che si possono riscontrare nelle demenze”.

Il fatto che la solitudine possa sfociare in demenza è noto da tempo, ma si sa ancora poco sui meccanismi neurobiologici sottostanti. Lo studio del Max Planck Institute è importante perché fornisce misurazioni oggettive di atrofia cerebrale e stabilisce precisi rapporti di causa-effetto.

I ricercatori tedeschi fanno poi notare che a contare non è solo la solitudine riportata inizialmente dai soggetti, ma anche l’evoluzione negli anni della condizione di partenza. C’è un inizio ma poi al trascorrere degli anni se non si pone rimedio è tutto un crescendo e un aggravarsi della situazione. Ciò apre le porte a eventuali misure di prevenzione primaria, come il fornire precocemente l’opportunità di interazione sociale a tutti.

E’ indispensabile trovare nuove strategie per evitare sensazioni croniche di solitudine nella popolazione anziana.

La solitudine negli anziani viene spesso associata alla malattia e alla perdita di indipendenza. Un binomio particolarmente critico soprattutto dopo i 75 anni di età. Lo studio dell’Istat “Gli anziani e la loro domanda sociale e sanitaria”  ha evidenziato che in Italia, su una popolazione di riferimento di 6,9 milioni di over 75, oltre 2,7 milioni hanno gravi difficoltà motorie, comorbilità e una compromessa autonomia nelle attività quotidiane. Di questi, 1,2 milioni non possono contare su un aiuto adeguato alle proprie necessità. Di qui la paura di non farcela, la chiusura in se stessi, la solitudine e quindi la depressione.

Ma la solitudine non è una prerogativa esclusiva degli anziani non autosufficienti. Anche gli anziani autosufficienti possono sperimentare questa condizione dolorosa per diverse ragioni. Ad esempio perché vivono da soli, spesso dopo la morte del coniuge, non hanno figli vicini o hanno perso i loro coetanei. Questi fattori indeboliscono la loro rete di supporto familiare e amicale. Anche le condizioni abitative e ambientali sfavorevoli, inoltre, possono ostacolare le relazioni e la partecipazione alla vita sociale, aggravando l’isolamento.

A fronte dei danni – emotivi, cognitivi, fisici e comportamentali –  provocati agli individui non è più rinviabile una strategia di prevenzione. Uno studio che ha visto monitorare 181 mila soggetti, pubblicato su Heart, è lì a confermare che la “solitudine aumenta di un terzo il rischio d avere un ictus o di sviluppare una malattia coronarica, due delle principali causa di malattia e morte nei nostri Paesi ricchi”.

Che fare? “La risposta – suggerisce il prof. Marco Trabucchi, grande conoscitore delle condizioni dell’anziano –  deve essere articolata e complessa: costruire una rete di servizi che accompagnino l’anziano. Assistenza domiciliare, servizi territoriali come i centri diurni e infine le RSA perché la persona non viva a salti, ma si muova in questa rete in maniera serena sapendo che quel che accadrà verrà tamponato da servizi che funzionano”.

Secondo Trabucchi per prevenire la solitudine «Bisogna garantire alla persona anziana servizi e serenità del futuro. Evitando la frustrazione psicologica dell’essere solo: “nessuno viene in mio aiuto se ne ho bisogno”. In questo ruolo sono fondamentali le comunità locali, municipi e comuni perché loro possono porsi come garanzia del futuro dell’anziano, sono veri e propri garanti. Non soltanto quando è solo e non più autosufficiente, ma anche quando sta bene – offrendogli opportunità di vita bella e attiva. Il Comune come luogo dove l’anziano sente di avere garanzie per il futuro, qualcuno che pensa a lui».