Solitudine, la tempesta perfetta

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Quando la famiglia non sa dare risposte all’anziano

“Mi sento solo” confida un anziano all’amico. “Comprati uno specchio” la risposta secca, dissacrante, riportata nella vignetta di Altan dedicata alla solitudine. Il “quadretto” può aprire al sorriso, ma secondo Bertrand Russell siamo di fronte alla “più temibile delle tragedie umane”.

E allora quali sono le risposte “vere” e serie che si possono dare al problema della solitudine, in particolare dell’anziano, solitudine che di anno in anno assume proporzioni sempre più ampie, sia per diffusione che per complessità?

L’Associazione Italiana di Psicogeriatria, presieduta da Diego De Leo, ha riunito fior di studiosi ed esperti nella Sala della Carità, a Padova, con l’obiettivo di penetrare nei territori oscuri della solitudine senile, indagando su cause e rimedi. Perché è solo la comprensione dei meccanismi e degli aspetti che portano la persona verso l’abisso della solitudine che può offrire soluzioni che vanno oltre la pillola.

 I relatori hanno indagato diverse aree ma sono arrivati tutti ad una evidenza che non consente più dubbi: il collegamento solitudine-rischio per la salute. Rischio per il benessere del singolo, della sua famiglia, della società e dei sistemi di welfare. Di più, oggi numerosi studi mettono la demenza in cima alla scala dei pericoli indotti dalla solitudine. C’è un legame solitudine e demenza. Una sorta di tempesta perfetta, come non bastassero i deficit sensoriali ad avere ricadute importanti nella limitazione della vita sociale dell’anziano, relegandolo all’isolamento, alla depressione, alla solitudine.

Può esserci la solitudine in un medico ospedaliero? E tra i pazienti dell’ospedale? In una RSA? E come contrastarla?

Renzo Rozzini, bresciano, fra “gli eroi” al tempo del Covid, autore del diario “Un ospedale in trincea”, ha raccontato la sua esperienza in quel difficilissimo periodo: si è sentito impaurito e smarrito ma non solo, sostenuto dalla solidarietà di colleghi e infermieri. Il libro ha voluto essere una testimonianza: “Le poche informazioni dal mondo fuori che durante quei mesi intercettavo mi restituivano pochezza di affermazioni e il sempre più radicato sospetto che fuori si sapesse ben poco di quello che stava accadendo dentro”. E’oggi che si percepisce la solitudine, c’è meno solidarietà, ridottissimi i colloqui con i colleghi, mentre la maggior parte del tempo è trascorsa dal medico davanti a un computer.

Giovanni Zuliani, professore ordinario all’Università di Ferrara, ha illustrato i risultati di una ricerca – ha coinvolto gli ospedali di Ferrara, Ancona e Firenze – che ha studiato la solitudine del paziente nel reparto di medicina. Qui si sente solo il 5 per cento dei ricoverati mentre un altro 31 per cento si sente solo qualche volta. Obiettivo della ricerca è quello di evitare il più possibile processi di fragilizzazione, stati emotivi negativi e individuare le patologie legate alla solitudine.

Diego De Leo, psichiatra e indagatore della solitudine a livello mondiale, ha parlato del rapporto fra la “loneliness” – la solitudine non voluta – e la demenza, con gli anziani i più esposti a questo pericolo. Un legame confermato da numerosi studi, Con l’isolamento sociale, la perdita sensoriale, i disturbi cognitivi fattori di rischio importanti per una diagnosi di demenza. I vissuti di solitudine possono segnalare uno stadio prodromico di demenza.

Ma si può originare la solitudine all’interno di una famiglia? Sì, può nascere da una richiesta di aiuto inevasa. L’anziano che chiede, la famiglia che non sa rispondere. L’incapacità di sentirsi compresi può ingenerare i primi sintomi di solitudine. Secondo Marco Trabucchi, psichiatra, geriatra e autore di numerosi libri incentrati sulla solitudine, ha detto che oggi gran parte delle famiglie non è in grado di capire l’anziano con problemi di salute mentale. Perché? Perché rifiuta questa malattia. E allora è il medico che deve entrare in scena, chiamato a formulare una diagnosi precisa, poi comunicata con chiarezza. Oggi telefoni muti, appuntamenti dati a distanza di mesi acuiscono situazioni estremamente delicate. Bisogna far comprendere che la demenza è una malattia, i cui sintomi non devono intimorire. Se una figlia o una moglie vengono ingiustamente accusate di furto dal loro padre o marito non è una cattiveria ma solo una conseguenza della malattia. Qui il ruolo del medico è insostituibile.

Tra i momenti più significativi del convegno padovano sulla solitudine, in occasione della sesta Giornata Nazionale contro la solitudine dell’anziano, va ricordata la tavola rotonda che ha avuto come protagonisti quattro “numeri uno” della sanità padovana: Ermanno Ancona, Leontino Battistin, Giovanni Paolo Deriu e Antonio Tiengo. Dovevano raccontare la solitudine provata nel passaggio dalla fine della loro attività professionale al pensionamento. Ebbene, la solitudine non abita fra questi “baroni” che hanno fatto la storia della sanità padovana e non solo.

“La solitudine mi è sempre piaciuta” ha detto il professor Ancona, ricordando che tutte le decisioni le ha sempre prese da solo e ancora oggi cerca di godere degli effetti positivi della solitudine. Nessun problema di solitudine anche per il professor Battistin, rammaricato che oggi non esista ormai più quel dialogo interprofessionale che un tempo era la norma.

Anche il prof. Deriu non si è mai sentito solo. Lui, ha ricordato,  è sempre stato un guerriero nella professione e lo è anche oggi, che lo ha visto combattere una grave malattia e vincere. Ora sta scrivendo un libro, perché “chi scrive vive due volte”. Infine, anche il professor Tiengo ha trovato le giuste medicine per scansare la solitudine, dopo aver preso coscienza che è finito un percorso e ne è iniziato un altro. Contraddistinto quest’ultimo dal mantenimento dei rapporti con la struttura medica, con l’università, poi trovando spazi nella vita sociale, quindi scoprendo l’importanza della letteratura e dell’attività fisica e potenziando il rapporto con la famiglia. Con i nipoti a fare la parte dei leoni.