La forza del mite

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Il modo giusto per avvicinarsi ai più fragili

“Io con te”: così il professor Marco Trabucchi, psicoterapeuta e importante indagatore della terza età, fonde sul piano operativo la spiritualità e la cura. Ma quale è la virtù più appropriata che dovrebbe avere chi sta accanto a una persona fragile, che soffre e che invoca aiuto? Quale l’atteggiamento più consono per far sì che la cura si trasformi in un atto d’amore verso l’altro?

Trabucchi non ha dubbi: è la mitezza la virtù “preferita” (così la definiva anche Roberto Bobbio, filosofo torinese, nel suo saggio “Elogio alla mitezza”). Trabucchi lo ribadisce nella newsletter settimanale dell’AIP (Associazione Italiana di Psicogeriatria) dopo aver letto il recente libro di Eugenio Borgna, psichiatra e saggista, dal titolo “Mitezza”. E ne suggerisce la lettura, perché Borgna indica il modo giusto di avvicinarsi a chi è più fragile: un modo sempre segnato dal rispetto, dall’accompagnamento, dal desiderio di lenire senza la minima violenza.

Perché proprio la mitezza e non, ad esempio, la mansuetudine, la bonarietà o la tolleranza? Perché è una disposizione dell’animo che si svela e rifulge solo alla presenza dell’altro. Perché il mite diventa il “tu”, il “lei”, di cui l’altro ha bisogno per vincere ciò che lo affligge sia nella carne che dentro al corpo.

La mitezza è una virtù individuale, non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi. Al contrario, ad esempio, della tolleranza che necessita di un “reciproco”, di un tollerante e di un tollerato. Ancora: la modestia, come l’umiltà, è una disposizione verso se stessi, mentre la mitezza è un modo di essere verso l’altro.

Borgna considera la mitezza una donazione senza limiti, a differenza della tolleranza che ha sempre limiti obbligati e prestabiliti.

I luoghi ove praticare la mitezza sono i più disparati, casa, lavoro, rapporti col prossimo, ma è nel contatto con i fragili, con i malati, con i sofferenti, con chi chiede una parola di speranza, con gli anziani, con chi ha perso la parola ma che invoca risposte, che questa virtù deve essere considerata protagonista assoluta. La Casa di Riposo pretende l’appellativo di “Casa della mitezza”. Chi opera in una RSA deve avere nella propria cassetta degli attrezzi questa virtù, nemica dell’arroganza, della protervia, di un’esagerata autostima.

«La mitezza – scrive il professor Borgna – è una dote che ho conosciuto nella sua luce interiore, quando mi sono incontrato con la sofferenza psichica, con la follia come sorella infelice della poesia, ma la mitezza è contagiosa, se incontriamo persone miti, qualcosa cambia nel nostro cuore, e lo diveniamo, almeno in parte, anche noi. L’immagine dell’allenarsi a vivere con mitezza è molto bella, e, direi, si confonde con l’immagine del contagio: l’una e l’altra testimoniano del valore e del significato della mitezza».

Borgna, oggi novantatreenne, come primario di servizi psichiatrici ospedalieri, fin dai primi anni ’60 ha adottato metodi di cura che, esorbitando dalla comuneprassi clinica, si sono incentrati sul dialogo reciproco e l’ascolto emaptico del paziente psichiatrico, non soggetto ad alcuna forma di coercizione, contenzione o imposizione, sperimentando così, per la prima volta in Italia, una nuova maniera di accostarsi alla malattia psichiatrica, più umana, rispettosa e comprensiva del dolore del paziente.

“La mitezza – afferma Borgna – consente a chi cura e a chi è curato di entrare in una relazione la più terapeutica possibile. La mitezza allarga e umanizza il nostro sguardo sulle cose che sono in noi, e sulle cose che ci circondano”.

Secondo Trabucchi, infine, la mitezza è la chiave giusta per entrare e capire cosa c’è dentro al dolore di chi ci sta accanto, per offrirgli una carezza o per sussurrargli “Io non ti lascerò mai solo”.