Sempre meno infermieri. Colpa anche della pandemia

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La situazione nel Veneto: ne servono oltre 4 mila

I nuovi infermieri sono sempre di meno, e la pandemia li ha ridotti ulteriormente.

Lo ha evidenziato con la forza dei dati il prof. Angelo Mastrillo, docente all’Università di Bologna, intervenendo al convegno “Il PNRR cambia il sociosanitario, come cambiano professioni e modelli gestionali?” organizzato dal Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università di Verona  assieme a Uneba Veneto nella sede di Santa Marta dell’Università.

Dal 2019 al 2020, ha evidenziato Mastrillo, che i laureati in infermieristica sono diminuiti del 9%: da 10751 a 9834.

Dal 2016 ad oggi i laureati sono in continuo calo.

Nel 2020 si sono laureati solo il 67% degli studenti che avevano iniziato il corso di laurea tre anni prima (il corso ha infatti durata triennale).

Mai, nei 15 anni per cui abbiamo i dati, la percentuale dei laureati sul totale degli studenti è stata così bassa.

Per quale motivo questo calo?  “Probabilmente – argomenta Mastrillo- per le difficoltà degli studenti a concludere regolarmente il percorso formativo. Specialmente completare il tirocinio, che va fatto in presenza, è stato reso più complicato dalla pandemia di Covid-19”.

Se fosse così, dovremmo aspettarci un basso tasso di laureati sul totale degli iscritti anche per il 2021, altro anno di pandemia.

E quindi le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche, private e non profit possono prevedere difficoltà ancora maggiori nel trovare gli infermieri.

Una situazione particolarmente grave per il Veneto, che è la prima regione italiana per fabbisogno di infermieri, pur essendo la quarta per popolazione.

Per il 2021/22 la stima Fnopi per il Veneto è di 4290 nuovi infermieri necessari. Ma i posti nelle università di Padova e Verona, pur se in aumento del 26% rispetto all’anno precedente, sono stati solo 1519.

Non solo gli infermieri mancano. “Entro il 2023 è prevista la carenza di oltre 10.000 medici specialisti, tra cui oltre 4.000 medici di emergenza/urgenza”, ha ricordato il prof.Stefano Tamburin, neurologo all’Università di Verona, nel suo intervento.

Alla difficoltà di trovare le risorse si somma il grande aumento, ora e in futuro, dei bisogni di assistenza in Italia.

“I malati di Alzheimer nel mondo triplicheranno dal 2015 al 2050 – ha ricordato Tamburin-. In Italia 1 milione di persone soffre di demenza. I malati di Alzheimer in Veneto sono circa 50.000, in provincia di Verona circa 10.000”.

“4 milioni di persone in Italia hanno almeno una patologia cronica, e il 48,6% di chi ha più di 65 anni ha tre o più condizioni croniche”, ha aggiunto il prof. Americo Cicchetti dell’Università Cattolica di Milano.

La riforma del welfare voluta dal PNRR vorrebbe essere una risposta a questi nuovi bisogni.

“Il PNRR offre certamente una grande opportunità, ma mette in campo meno risorse di quelle che in realtà sarebbero necessarie – dice Cicchetti-. (…) Servirebbero dall’oggi al domani 37,3 miliardi in più di spesa corrente nella sanità per arrivare ai livelli medi dei 25 paesi europei”.

A portare una nota di speranza è la tecnologia. Graziano Pradavalli, docente del dipartimento di Informatica dell’Università di Verona, ha mostrato esempi concreti di come la tecnologia può consentire, ad esempio, di verificare se il paziente assume la terapia. Ma anche di consentire alla persona fragile di mantenere autonomia anche con l’avanzare dell’Alzheimer o di problemi neurologici.

Giorgio Mion, docente di economia aziendale dell’Università di Verona, ha insistito sulla necessità di ripensare il modello di welfare attuale, senza ripetere gli errori fatti. Sarà importante, ad esempio, puntare sulla co-progettazione e adattarsi alle specificità di ciascun territorio.

Quanto alle case di comunità, nuova istituzione voluta dal PNRR, Mion ha evidenziato la necessità che queste sappiano guadagnare la fiducia dei cittadini come risposta ai propri bisogni. Altrimenti c’è il rischio di burocratizzazione.