Partecipazione condivisa delle cure con tre D: dialogo, doveri e diritti

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La legge 219 calata nella pratica, incontro ad AltaVita-IRA

E’ conosciuta come la “legge 219”, porta la data 22 dicembre 2017. Approvata a larghissima maggioranza in Parlamento, ha rappresentato e rappresenta una svolta culturale nel rapporto medico-paziente. Le “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” – questo il nome della 219 – hanno costretto a superare, infatti, la visione paternalistica del medico che decideva in nome e per conto del paziente, obbligandolo, invece, a  condividere con il paziente il processo decisionale. Il medico non ha più la discrezionalità di decidere per conto proprio ma deve instaurare una comunicazione “duale” con il paziente, con le sue specifiche condizioni, necessità ed aspettative.

“E’ una legge importante da conoscere per evitare incidenti di percorso”; “c’è bisogno di fare cultura attorno a questa legge ancora poco conosciuta”: lo hanno detto il presidente di AltaVita-Ira, Stefano Bellon, e il geriatra Valter Giantin, presidente del comitato etico dello stesso ente, presentando l’incontro, con gli operatori socio-sanitari nella Sala Polivalente del Centro Servizi “Beato Pellegrino”.

 Un appuntamento improntato sulla praticità, per calare la legge 219 all’interno dei Centri Servizi e delle RSA. A illustrarla due docenti dell’Università di Padova. Francesca Marin, docente di filosofia morale, ha parlato della “Legge 219: considerazioni etiche e rilevanza nelle RSA”; Anna Aprile, direttore di Medicina Legale dell’Azienda Ospedale-Università, è intervenuta su “DAT (disposizioni anticipate di trattamento), pianificazione delle cure e nomina del fiduciario: aspetti medico-legali”.

Innanzi tutto è stata spiegata la differenza fra DAT e PCC (Pianificazione condivisa di cure).

Le DAT possono essere anche espressione dell’unilaterale iniziativa di una “persona”, indipendentemente da una relazione di cura con il medico (anche se la legge consiglia di acquisire adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte). Anche un individuo sano, in previsione di una futura condizione di malattia e di incapacità ad autodeterminarsi, va in Comune (presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza) o da un notaio e consegna il cosiddetto “testamento biologico”, ovvero le DAT, come previsto dall’articolo 4 della 219. Qui ci può essere quindi anche un solo attore, l’individuo che mette per iscritto le sue decisioni, peraltro anche in una condizione di ancora piena salute.

La PCC, prevista dall’articolo 5, riguarda invece un processo che nasce e si sviluppa più in profondità nella relazione medico-paziente. Un conto è immaginarsi malato in futuro (DAT), un altro è essere colpito da una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da una inarrestabile evoluzione con prognosi infausta. Qui entra in campo la PCC. Protagonisti  sono medico e paziente: il primo prevalentemente informa, il secondo concorda o meno e infine indica le strategie con cui vuole essere curato, anche fino alla fine della sua vita. Il medico ha l’obbligo infine di registrare la PCC e l’eventuale nomina del fiduciario nella cartella clinica del paziente. 

 Il paziente può decidere di accogliere, del tutto o solo in parte, le proposte terapeutiche del medico o può anche respingerle. Non si tratterà mai di posizioni “ingessate”, ma le posizioni possono essere riviste in qualsiasi momento da parte del malato. Si procede – ha detto Francesca Marin – con una “visione dinamica” in relazione anche alla potenzialità delle cure attuali e future, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico. Tutta l’équipe sanitaria è tenuta alla scelta del paziente.

 La PCC, se la relazione medico-paziente si struttura in un clima sereno, procederà su due binari nel rispetto dell’autonomia professionale del medico e dell’autonomia decisionale del paziente. Oltremodo raccomandata da parte del medico una gestione degli argomenti e delle proposte di cura da svolgersi “in punta di  piedi”, augurandosi di poter procedere anche su “un pavimento adeguato” preparato dal professionista e gestito con il malato e/o i suoi famigliari (che deve essere il più possibile sgombro di ostacoli), alla luce di un rapporto di piena fiducia che non deve mai venire meno nel miglior interesse della persona assistita. Per questo diviene importante il comma 8 dell’art.1 che dice espressamente che “il tempo della comunicazione è tempo di cura”. “Curare è un’arte, che non si improvvisa” ha commentato in proposito Valter Giantin.

E nel caso il malato non sia in grado di esprimersi cosa succede? Le risposte le ha Anna Aprile. Innanzi tutto, i famigliari non possono sostituirsi al loro congiunto malato in assenza di lucidità anche temporanea. Le uniche figure delegate a rappresentare il malato sono prevalentemente due: il fiduciario, se nominato facilmente dal malato stesso secondo quanto previsto dalla stessa legge 219, o l’amministratore di sostegno, come previsto da una precedente legge (la n.6 del 9 Gennaio 2004), nel cui incarico che viene formulato dal giudice tutelare dopo apposita pratica legale, deve essere specificata la competenza decisionale relativa ai trattamenti terapeutici.

Il fiduciario è una figura molto importante: è la persona indicata dal paziente nella sua cerchia parentale e amicale che, unitamente al team di cura, sostiene il malato nella formazione della volontà decisionale e che collabora con il medico nell’ipotesi in cui dovessero essere realizzate scelte di cura, non espresse a suo tempo quando il malato era in grado di esprimere la propria volontà. Previsto anche il caso in cui venga a crearsi un conflitto fra il fiduciario e il medico: in tale evenienza la decisione viene rimessa al giudice tutelare che si esprimerà sul ricorso.

Il consenso informato è sempre obbligatorio? No, ci sono alcuni casi in cui non è obbligatorio: per le cure di normale routine e nelle situazioni di urgenza-emergenza, ovvero quando le condizioni della persona sono talmente gravi e pericolose per la sua vita da richiedere un immediato intervento ed il paziente non è in grado di esprimere un pieno consenso (ad es. per uno stato confusionale dopo un trauma cranico, per uno shock cardiaco, ecc.).

Alla fine dell’incontro una pioggia di domande legate a casi specifici e, di rimando, l’invito a essere chiari con il paziente, a evitare un gergo professionale incomprensibile, a documentare tutto nella cartella clinica, e a rispettare al massimo la persona, la sua determinazione, la sua volontà, non lasciandola però mai sola nella decisione.

La scrittura delle PCC deve essere un percorso condiviso di confronto, frutto di un dialogo che si deve istituire tra il medico/intera équipe socio-sanitaria ed il paziente, gestito con molta arte e cura, nel pieno rispetto di ogni persona e delle sue scelte più profonde.