“Vi racconto il mio lavoro ad AltaVita”

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Un ruolo prezioso nell’assistenza e cura degli anziani

“Dulcis in fundo”. AltaVita-IRA, in ossequio al celebre proverbio latino, ha voluto riservare l’ultima parte del proprio convegno “Assistere l’anziano oggi” a coloro che giorno dopo giorno sono accanto agli ospiti della RSA, coloro che da sempre sono mattone e cemento nella costruzione dell’assistenza.

Medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari e tutti quanti costituiscono quell’operoso puzzle che fanno sì che AltaVita-IRA trovi il massimo consenso nella comunità padovana, hanno ricevuto un meritato riconoscimento.

Quattro rappresentanti del personale dell’Ente sono stati intervistati dal giornalista Francesco Jori e hanno potuto raccontare la loro esperienza, il loro lavoro, le loro paure e il loro amore per gli anziani a loro affidati.

E anche il difficile ruolo di “ponte” fra gli ospiti e i loro famigliari, soprattutto in un periodo difficile come quello segnato dalla pandemia da Covid-19.

Chiara Bigolaro, psicologa, è ad AltaVita-IRA da 17 anni. Il suo lavoro ha subito profonde trasformazioni, ma è sempre stata convinta che l’anziano merita il meglio sempre, soprattutto quando affronta l’ultimo ciclo della propria vita.

La psicologia, prima grande assente, è stata riscoperta quando la solitudine dell’anziano poteva far più male del Covid. La figura della psicologa, inserita in un’équipe di professionisti che si occupano del bene della persona, ha dimostrato di poter giocare un ruolo importante e insostituibile.

Cos’è cambiato con il Covid? “Nulla è più come prima. E’ cambiato che non c’è più un sabato libero, perché sento il dovere di esserci ogni giorno”. E cosa l’ha maggiormente colpita in questi ultimi mesi? “L’essere diventata una sorta di ponte fra ospiti e famigliari. Non potete immaginare la gioia di un anziano quando gli recapitavo il messaggio di un parente. Si è creato un clima di unione anziano-psicologa-parenti fortissimo. Quante telefonate, quante videochiamate, quante e-mail ci sono state per tenere vivi i contatti”.

Marta Mazzuccato lavora ad AltaVita-IRA da 23 anni. Era una ragazzina quando ha intrapreso qui l’attività di operatrice sociosanitaria. L’ha fatto per una scelta di vita: “Per fare qualcosa di concreto, per aiutare gli altri”.

Il “mestiere” è cambiato molto nel corso degli anni “perché qui siamo continuamente aggiornati” e perché “è cambiata anche la figura dell’anziano ospite”, con meno anni e con patologie apparentemente meno gravi. Quando sente di aver fatto bene il suo lavoro? “Quando riesco a dare all’anziano la certezza di stare in un posto sicuro”. E il Covid cosa ha comportato per lei? “Mi ha a lungo messo addosso la paura, alla fine del lavoro, di portare a casa la malattia”.

Roberto Ramon è medico nelle strutture di AltaVita-IRA dal 2010, giunto qui dopo 15 anni di attività di internista sempre fra gli anziani. Una lunga esperienza, ma sempre aperto ad accogliere gli insegnamenti che derivano da un’attività contrassegnata da giorni e da notti dove l’imprevisto è routine.

Il dott. Ramon ha una massima che gli è cara: “La diagnosi serve al medico, al paziente devo dare le risposte”. La sua mission? Garantire la dignità all’anziano fino all’ultimo giorno. E quando per via della gravità delle malattie viene meno la speranza di guarigione “io devo fare l’impossibile per alleviare le sofferenze”.

“Noi medici parliamo spesso con gli ospiti ed i loro familiari; desideriamo costruire una relazione, capire da quale terreno si son sollevate le radici di chi viene a vivere qui con noi. Ci piace decifrare le speranze, cogliere le aspettative; cerchiamo di capire se vi sono delle convinzioni errate che devono essere discusse. E’ un momento fondamentale.

Qualcuno probabilmente in questa occasione per la prima volta impara a conoscere la reale gravità della malattia del proprio caro. Qualche altro regge già da molto tempo le difficoltà di un’assistenza nella cronicità.

Queste famiglie cercano supporto, cercano una spiegazione, un perché. La persona che è sempre stata loro accanto e che era autonoma, ora non lo è più, non ragiona più come prima, ma a suo modo ragiona e comunica. Non è facile far accettare la demenza come una malattia per la quale non esiste alcuna cura, una malattia che costringe il paziente ad un percorso difficile, fatto di dolore, ansia, paure, sensazione di smarrimento, ma cerchiamo di farlo con parole semplici, dirette, mai tuttavia spegnendo la scintilla della speranza. Sappiamo tuttavia anche tacere, creare il silenzio, perché è all’interno di questi spazi di silenzio che ci mettiamo in ascolto”.

 “Qui ad AltaVita ho visto tante cose che mi hanno fatto crescere. E’ vero che le persone hanno bisogno di avere qualcuno vicino, fino alla fine. Per questo è preziosa e indispensabile l’attività di tutti i nostri operatori.  

E devo confessare una cosa: quando un ospite muore per noi che l’abbiamo assistito, curato, ascoltato sentiamo forte il distacco. E ne soffriamo”.

Maria Antonella Sguotti è infermiera da 31 anni. Quattordici li ha trascorsi ad AltaVita. E’ “infermiera per caso”. Era avviata alla carriera di insegnante, ma poi è approdata verso l’assistenza agli anziani. Un’attività professionale in continua evoluzione, sempre a contatto con patologie importanti dell’anziano ospite. Pentita di non aver fatto l’insegnante? “Assolutamente no. Qui avverti di avere un ruolo decisivo nell’assistenza all’ospite. Se il braccio del figlio che accarezza la madre, la mano che asciuga una lacrima. In questi mesi ci siamo sostituiti ai familiari. L’ospite fragile ce lo siamo sentiti ancor più vicino. La trasformazione in questo ruolo di famigliare mi ha arricchito moltissimo”. Come essere, nello stesso tempo, infermiera del corpo e sostegno dell’animo.