Quale ruolo per le RSA? “Sono imprescindibili”

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Lo afferma mons. Angelelli responsabile della Pastorale sanitaria della Cei.

Mons. Angelelli afferma che “la struttura RSA è imprescindibile” e che “le RSA non solo non vanno demonizzate ma vanno reinserite in una rete assistenziale dato che, in determinate situazioni, non è possibile prescindere da queste strutture”.

Quale potrebbe essere il futuro delle RSA dopo le ferite lasciate dal Covid? La domanda l’ha rivolta la rivista “Nuova Proposta” a mons. Massimo Angelelli, responsabile della Pastorale sanitaria per la Conferenza Episcopale Italiana. E la risposta è stata abbastanza sorprendente dopo la “solenne bocciatura” che esponenti della Chiesa avevano avanzato nelle scorse settimane.

L’intervista è stata riproposta dall’Uneba e, a nostra volta, la riproponiamo integralmente per i tanti aspetti condivisibili che esprime.

Gentile mons. Angelelli, si sta discutendo di una riforma del settore socio-sanitario. Quali potrebbero essere, a suo avviso, alcuni passaggi essenziali ed imprescindibili di questo processo?

Credo che la riforma del settore socio-sanitario debba partire da un’analisi dell’esistente e della storia recente. La pandemia ha svelato una serie di problematiche latenti, peraltro conosciute nella maggior parte dei casi, facendole emergere in questa situazione di stress del sistema.

Preliminarmente quindi occorrerebbe analizzare il sistema per capire dove non ha risposto adeguatamente: non ha retto sul territorio, nel senso che il de finanziamento e la chiusura di diverse strutture hanno depotenziato l’efficacia del SSN; non ha retto, inoltre, la catena sinergica tra le varie componenti del SSN (ad es. dal coinvolgimento dei medici di base, alla sanità privata, al socio-sanitario, ecc.).

L’altro grande tema che ha mostrato la debolezza del sistema è la carenza di personale. Sono solo tre esemplificazioni che non esauriscono tutte le problematiche. E’ auspicabile che il progetto di riforma parta da questi limiti evidenziati durante la pandemia per arrivare a ridisegnare un SSN che sia più capace di prossimità alle persone. Mi piacerebbe che ci fosse un’inversione di tendenza: non le persone che vanno verso il SSN, ma il SSN che vada verso le persone nei luoghi, nei territori e nelle aree rurali che sono state completamente abbandonate.

Considerando la necessità di una rete socio-sanitaria per la cura di soggetti fragili, come coniugare i servizi in modo che siano complementari e integrativi e non alternativi, in un continuum assistenziale?

Mancano i punti di contatto, ossia un sistema che leghi l’offerta sanitaria. Siamo ancora in uno scenario in cui il paziente o il caregiver vanno alla ricerca dei servizi nella speranza che, in qualche modo, qualcuno li aiuti, con tutti gli ostacoli della burocrazia.

Il risultato è un’ulteriore diseguaglianza che si inserisce nel sistema, perché se sai muoverti adeguatamente all’interno del sistema, riesci a raggiungere l’obiettivo.

Se sei un soggetto fragile all’interno di un contesto fragile, la burocrazia e il sistema diventa un ostacolo, non più un aiuto, e non ti accompagnano. E questo crea un’ulteriore diseguaglianza. Siamo inoltre in una fase di digitalizzazione degli accessi alle cure. La tecnologia è un supporto ottimo ai servizi.

Gli anziani realmente fragili hanno avuto qualcuno a fianco che li aiutasse nella prenotazione del vaccino? Il tema di fondo, quindi, è raccordare la rete dei servizi. Soprattutto raccordare l’offerta sui territori: pubblico/privato, componente accreditata, servizi territoriali, ecc.

A partire dalla pandemia, si è rilevata una progressiva carenza del personale sanitario e infermieristico nelle strutture socio-sanitarie in quanto coinvolto nelle attività di assistenza ospedaliera. Come si potrebbe ovviare a questa situazione in prospettiva?

Dobbiamo essere capaci di rileggere i bisogni nel medio periodo e ritarare i tetti all’interno dell’Università. Quest’anno ci sarà un innalzamento dell’accesso alle lauree infermieristiche, di oltre 23.000 posti aggiuntivi. Quindi 23.000 giovani che entreranno nel sistema e che, però, saranno pronti tra 4 anni.

E’ opportuno che il decisore politico sia in grado di effettuare una programmazione di medio e lungo periodo. Anche in virtù dei progetti che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) andrà a mettere in campo, perché parliamo di una serie di prospettive e di scenari di attuazione: ad es. l’infermiere di comunità, la rete territoriale di supporto, ma se non abbiamo le persone rimarrà un “libro dei sogni”.

Una sana programmazione significa creare le condizioni affinché i professionisti vengano adeguatamente preparati e i tetti di accesso alle lauree, sia triennali che specialistiche, sia di medici che di infermieri o di altri professionisti sanitari, siano adeguate.

Oggi siamo in una situazione in cui manca tantissimo personale e stiamo sperando che dall’estero vengano a lavorare in Italia. Poi però abbiamo alti tetti di disoccupazione in Italia, perché molti ragazzi nei test di accesso alle lauree infermieristiche restano fuori, ed è una situazione paradossale.

In che modo le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) potrebbero migliorare il sistema sociosanitario e quali potrebbero essere le scelte strategiche fondamentali?

Siamo andati negli ultimi anni verso un de-finanziamento costante e un modello sanitario fondamentalmente impostato sulle acuzie. Quindi abbiamo grandi centri di altissima specializzazione, ma un territorio sguarnito di una rete di servizi locali. Credo vada ricalibrata la presenza della sanità sul territorio.

I modelli che vengono proposti in questa fase di preparazione del PNRR sono estremamente interessanti: si parla di ospedali di comunità, di strutture per le cure intermedie, ecc. Sono ottime idee ma la mia preoccupazione è che vengano distribuiti in modo equo sul territorio, che vengano realizzati come anelli di un’unica catena, non come ulteriori strutture isolate.

L’idea sbagliata che l’ospedale fosse di un tipo unico e che ogni ospedale o struttura sanitaria dovesse avere tutte le specializzazioni non è sostenibile. Quindi occorre un modello di cure intermedie che permettano di ridurre gli accessi alle strutture per acuti, laddove siano inopportune, e siano più presenti sul territorio, anche perché c’è un criterio geografico di prossimità che rappresenta un elemento di cura: i livelli di attesa di vita di un individuo cambiano anche in base al fatto che la struttura di cura si trovi a 3 km, a 10 km o a 50 km.

Quindi avere una struttura di base sul territorio, anche nelle zone rurali più difficilmente accessibili, è un elemento di prossimità e di cura agli squilibri all’interno del territorio. Il PNRR deve quindi andare a intercettare un modello di sanità che sia realmente di prossimità, che sia gestita su più livelli di accesso ma soprattutto che finalmente coinvolga tutte le componenti del SSN. Ad es. nel raccordo tra la medicina di base e quella specialistica, evitando che i pazienti debbano ricorrere a più consulti sperando che qualcuno dia una risposta.

Non abbiamo ancora un fascicolo sanitario elettronico nazionale. Ogni volta che ci si sposta tra regioni occorre rifare molti accertamenti in quanto non accessibili on line. La quantità di problemi attuali confrontata con la quantità di risorse disponibili crea un’occasione unica di ridisegnare con coraggio il SSN che dal ‘78 ad oggi ha dimostrato tutta la sua forza in termini valoriali e la sua debolezza in termini di attuazione.

Questa è l’occasione per il rilancio di un criterio realmente universalistico, in omaggio alla magnifica intuizione della Costituzione, in cui si rivede che tutti abbiano realmente accesso alle cure. In una grande sinergia tra pubblico e privato, in cui il privato accreditato è a servizio tanto quanto il pubblico, ma deve essere meglio integrato e meglio connesso nel sistema.

Qual è, a suo avviso, il ruolo delle RSA e quali sono le modalità per arrivare ad un sistema che non si limiti a curare ma arrivi a prendersi cura delle persone fragili?

La struttura RSA è imprescindibile in un contesto socio-sanitario in cui le famiglie sono sempre più in difficoltà per assistere i propri cari. Ad es. nelle lunghe cronicità e nelle malattie neurodegenerative che gravano sulle famiglie in maniera determinante, creando a volte disagio economico, a volte disagio relazionale, perché le famiglie non sono più composte da una decina di persone che possano prendersi cura della persona anziana.

Ho conosciuto e sperimentato situazioni di famiglie che sono entrate in crisi perché non riuscivano a gestire il gravame di una persona in casa che andava assistita per 24 ore. Le RSA non solo non vanno demonizzate ma vanno reinserite in una rete assistenziale dato che, in determinate situazioni, non è possibile prescindere da queste strutture.

Spero che le RSA evolvano in modelli estremamente flessibili, in cui siano capaci di dotarsi di rete domiciliare, semiresidenziale diurna e residenziale, in modo che le persone possano accedere a diversi livelli di servizio.

L’auspicio è che la RSA diventi una sorta di rete di accompagnamento multilivello, che prenda in carico il paziente a domicilio nella misura in cui ciò sia possibile e, laddove ci sia bisogno di residenzialità, possa intervenire con quest’altro tipo di assistenza.

In questa evoluzione sarà opportuno che le RSA si preparino a questo cambiamento dal punto di vista qualitativo-professionale ed è però opportuno che lo Stato riconosca questo servizio come strategico sul territorio. Altrimenti manchiamo quell’obiettivo di universalità, cioè facciamo ricadere sulle famiglie il costo dell’accompagnamento della persona ed è inaccettabile.

Per arrivare ad un modello in cui oltre a curare si arriva a prendersi cura delle persone, occorre un cambiamento culturale. Il nostro sistema è ancora pensato per gestire una patologia e le dinamiche correlate.

Occorre un ripensamento dal punto di vista culturale, a cominciare dalla formazione dei giovani all’Università, ribaltando il meccanismo attuale, in modo che noi professionisti siamo intorno alla persona, capendone la situazione e i bisogni, e insieme ci attiviamo per il bene della persona stessa.

Non è la persona che deve andare a sommare visite e percorsi terapeutici, ma noi intorno alla persona che dobbiamo prendercene carico. E’ un modello culturale che richiede di camminare insieme non solo a livello strutturale e gestionale, ma per creare una mentalità diversa.

Potremmo chiamarlo un “sogno 2030”, nel senso di ripensare la nostra rete di struttura, in questa dimensione di sviluppo, tra le risorse del NRR e l’opportunità di cambiamento, mettendo al centro realmente la persona. L’abbiamo detto molte volte e questa è l’occasione per farlo sul serio.