Rapporti fra RSA e ospedali servono protocolli chiari

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A volte si creano situazioni inaccettabili: ecco un caso tipico

Non c’è altro tempo da perdere, perché si stanno ripetendo situazioni inaccettabili ai danni di anziani malati ospiti delle RSA.

La denuncia trova spazio sul nuovo numero della Newsletter dell’AIP, Associazione Italiana di Psicogeriatria. “E’ indispensabile – afferma il direttore Marco Trabucchi – che a livello del singolo distretto si provveda a costruire protocolli che regolino i rapporti tra le RSA di una certa area e l’ospedale di riferimento”.

Si parla di atti di disumanità, con gli anziani incolpevoli, vittime di tensioni, o anche solo di incomprensioni, fra chi dovrebbe pensare solo alla loro salute.

Cosa è avvenuto? Tutto parte dal racconto della responsabile di una RSA lombarda, Maria Piliero, che descrive una situazione purtroppo non infrequente che colpisce anziani ospiti, trattati come pacchi da rispedire al mittente.

Ne è la causa un misto di ageismo, di disprezzo per la vita anziana, di retorica contro le RSA. Nel caso descritto, il sospetto diagnostico impediva qualsiasi trattamento all’interno della struttura e, quindi, l’invio in PS è stata una decisione razionale, clinicamente motivata.

“Scrivo – racconta la Piliero – quello che mi è successo una sera verso le 22. Partiamo dall’inizio. Domenica scorsa il mio collega invia una paziente dell’RSA in PS per sospetta occlusione intestinale.

Il medico che l’accoglie al triage la liquida in meno di un’ora, dicendo che la signora aveva rifiutato il ricovero. Non soffermandosi sul fatto che una signora di 93 anni, proveniente da RSA, sola, sofferente e impaurita non era pressoché capace di esprimere un giudizio.

Riaccolgo la paziente in RSA, imposto una doppia copertura antibiotica, idratazione in vena, sondino naso gastrico a caduta per ridurre la pressione addominale. Ieri pomeriggio le condizioni peggiorano, addome ligneo, peristalsi metallica, paziente sofferente… sentendomi impotente, contatto la figlia e la invio in PS. Erano le 16. Alle 22 lo stesso medico di domenica chiama in RSA chiedendo di me.

Lo contatto da casa e mi aggredisce verbalmente con tono di voce altissimo. Mi chiede perché ho inviato la signora dopo il suo rifiuto al ricovero. Accusa le RSA che non hanno il coraggio di somministrare un po’ di morfina e accompagnare alla morte.

Gli chiedo, mentre lui respira per prendere fiato, perché domenica era disposto a ricoverarla e adesso no, la sua risposta: perché quel posto serve a chi ne ha più bisogno. E voleva immediatamente un’ambulanza per far rientrare la paziente.

Noi in RSA facciamo gli invii in PS quando non c’è altra soluzione. Se a marzo/aprile 2020 potevo accettare le urla al telefono dei colleghi del PS, oggi non le accetto. Non posso accettare le urla di un collega, solo perché invio una signora di 93 anni.

Non possono sempre stare dalla parte della ragione e né creare questa guerra tra poveri. Ma quanti “accompagnamenti” facciamo in RSA?!?! Quante volte assistiamo i figli, i nipoti, in questa fase? Quante volte, anche noi ne usciamo sconvolti, perché non siamo robot e le morti seppur naturali ci provano? 

Non posso accettare questa avversione per le RSA alimentata quotidianamente dai mass media. Il mio sfogo è solo tristezza, perché ho scelto di lavorare in RSA e credo a quello che lei dice, che l’ospite non ha bisogno di sole cure ma del senso. Ogni giorno ripeto queste cose alla mia équipe che ormai, bonariamente, non ne può più”.

“Questa lettera – commenta il prof. Tabucchi – mi ha provocato profonda tristezza. Il ripetersi di azioni negative nei riguardi dei residenti nelle RSA è inaccettabile, qualsiasi possano essere le motivazioni organizzativo-psicologiche.

I vecchi fragili non devono mai, ripeto non devono mai essere le vittime di tensioni tra servizi, tra operatori, di incomprensioni, di errori. Però questi atti di disumanità non cesseranno da soli se non saranno costruiti dei percorsi che accompagnano l’ammalato dalla RSA all’ospedale”.

Aggiunge Trabucchi: “Dobbiamo prima di tutto ricordare che, qualsiasi sia l’organizzazione dei servizi, resterà sempre un numero più o meno elevato di persone i cui problemi clinici non possono essere gestiti nelle RSA.

Partendo da questo dato di realtà è indispensabile costruire a livello di distretto (dove funzionano!) linee guida che indichino chiaramente le modalità di accesso, le informazioni da fornire assieme al paziente trasportato dall’ambulanza, spesso senza un accompagnatore che ne conosce le condizioni di salute, i tempi di attesa in PS, quando rinviare alla RSA con un’adeguata terapia e quando invece ricoverare.

Non vi è dubbio che l’ospedale si carica di un lavoro pesante… ma non è autorizzato a scegliere i malati che più gli piacciono!”

“È significativo a questo proposito- scrive il presidente dell’AIP –  un lavoro di studiosi italiani e svedesi, nel quale si puntualizza la correlazione, osservata nelle persone residenti nelle RSA, tra la mortalità e specifici pattern (motivi, modelli) di comorbilità.

Indirettamente il lavoro indica l’importanza di un’attenta sorveglianza clinica delle persone che vivono nelle RSA; purtroppo, invece, spesso manca una presenza organizzata e competente per seguire l’evoluzione dello stato di salute dei residenti.

Sarebbe tempo che su questo delicatissimo argomento vi fossero chiare prese di posizione da parte del Ministero, invece di continuare a ballare attorno all’idea che le RSA sono ambienti da evitare (e, se possibile, da distruggere!)”.

“Anche in previsione di un serio e articolato sviluppo della telemedicina – conclude Trabucchi – è necessario costruire piani solidi, superando i conflitti che frequentemente si verificano. Ripetiamo ancora una volta: la telemedicina non è il collegamento tra due computer, ma un sistema complesso di relazioni tra competenze, culture, sensibilità diverse”.